Una recente sentenza della Corte di Cassazione, ridefinisce lo scenario del tacito mutuo consenso, dal momento che non si attua automaticamente e in ogni possibile occasione ma deve prevedere il configurarsi di alcune specifiche condizioni, come ben testimonia almeno il caso preso in esame dalla Suprema Corte.
Più nello specifico, secondo la sentenza recentemente emanata dalla Corte di Cassazione (n. 22489 del 4/11/2016) il fatto che un lavoratore licenziato trovi una nuova occupazione durante il periodo che intercorre tra l’impugnazione extragiudiziale del licenziamento, il tentativo di conciliazione presso la DTL o presso altra sede protetta e l’impugnazione giudiziale dello stesso licenziamento (qualora il tentativo di conciliazione non sia andato a buon fine), non implica il tacito mutuo consenso ovvero l’accettazione, da ambo le parti del licenziamento stesso né implica che il lavoratore licenziato possa perdere interesse all’azione giudiziale.
Nella fattispecie la Corte di Cassazione, con la sua sentenza, ha accolto il ricorso di una lavoratrice che, in tal modo contestava la decisione presa dai giudici di una sezione d’appello. Nel primo grado di giudizio, i giudici avevano dichiarato inefficace il licenziamento intimato da una società alla stessa dipendente, ordinandone la riammissione in servizio e condannando la società a pagarle le retribuzioni maturate nel periodo detratto. La Corte d’Appello, in seguito, aveva rigettato il giudizio emanato in primo grado, riconoscendo nella vicenda, un caso di mutuo consenso delle parti, riguardo alla risoluzione del rapporto di lavoro, dal momento che la lavoratrice stessa, dopo aver impugnato in via extragiudiziale il recesso, aveva provveduto a trovare una nuova occupazione.
Secondo quanto osservato dalla Suprema Corte
“La giurisprudenza della Suprema corte cui va data continuità è da tempo consolidata nello statuire che la mera inerzia del lavoratore non è di per sé sufficiente a far ritenere una risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Affinché possa configurarsi una tale Soluzione è invece necessario che sia accertata, sulla base di ulteriori e significative circostanze, una chiara e certa volontà comune di porre fine ad ogni rapporto lavorativo”.
In definitiva, quindi, considerando anche la precedente sentenza n. 9583/2011 della Corte di Cassazione, per il configurarsi del tacito mutuo consenso, non basta che decorra un certo periodo di tempo fra il licenziamento e la sua impugnazione giudiziale, né il fatto che il lavoratore, come nel caso preso in esame, sia stato costretto a occuparsi o comunque a cercare una nuova occupazione dopo aver perso il lavoro, per cause diverse dalle dimissioni o, ancora, abbia accettato il pagamento del TFR, dal momento che tutti questi comportamenti non possono essere interpretati come tacita dichiarazione di rinunzia al diritto al reintegro nel vecchio posto di lavoro. Nell’esperienza comune, infatti, nel periodo in cui il lavoratore prepara il ricorso contro il licenziamento o attende la conclusione del relativo giudizio, ha generalmente la necessità e l’urgenza di cercare una nuova fonte di sostentamento per sé e per la propria famiglia.
In tal modo, la Corte di Cassazione ha enunciato anche il principio di diritto in base al quale per configurarsi il tacito mutuo consenso inteso a risolvere o, comunque, a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra il licenziamento e la relativa impugnazione giudiziale ma è necessario il concorso di ulteriori, significative, circostanze che spetta al datore di lavoro documentare; la ricerca di una nuova occupazione o la percezione del TFR non possono, pertanto, essere incluse in tali ulteriori e significative circostanze.
Questo articolo è stato modificato per l'ultima volta il 22 Dicembre 2016 11:24