Con l’Approfondimento del 3 Marzo 2020 la Fondazione Studi chiarisce quali sono le conseguenze del mancato versamento dei contributi al fondo di previdenza complementare, sulla fruizione dei benefici contributivi riservati alle imprese.
Nella recente nota n. 1436 del 17 febbraio 2020, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito indicazioni molto precise sulle conseguenze in caso di omesso versamento, da parte del datore di lavoro, della quota contributiva ai fondi di previdenza complementare.
In particolare, dopo l’analisi della normativa, l’Ispettorato giunge alla conclusione che, laddove il datore di lavoro non abbia effettuato il versamento dei contributi al fondo di previdenza complementare e abbia comunque ridotto il proprio onere contributivo omettendo i versamenti dovuti al Fondo di garanzia, previsto dall’articolo 2, della legge 29 maggio 1982, n. 297, si configura una violazione di legge che legittima il recupero degli sgravi contributivi eventualmente fruiti in applicazione del suddetto art. 1, comma 1175, della L. n. 296/2006.
Adesione del lavoratore alle forme pensionistiche complementari e modalità di finanziamento
Come noto, la previdenza complementare è quel sistema privato che consente di integrare i trattamenti pensionistici obbligatori.
La natura privatistica della previdenza integrativa emerge dal meccanismo di adesione del lavoratore, che è libero e volontario , e dalle modalità di alimentazione del fondo, al quale contribuiscono i destinatari della prestazione e il datore di lavoro.
A tal proposito, si rammenta che il finanziamento delle forme pensionistiche complementari può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro o del committente e attraverso il conferimento del TFR in corso di accantonamento.
Ferma restando la facoltà per tutti i lavoratori di determinare liberamente l’entità della contribuzione a proprio carico, relativamente ai lavoratori dipendenti che aderiscono ai fondi, di cui all’articolo 3, comma 1, lettere da a) a g) e di cui all’articolo 12 del D.Lgs. n. 252/2005, con adesione su base collettiva, le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore stesso possono essere fissate dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali. Gli accordi fra soli lavoratori determinano il livello minimo della contribuzione a carico degli stessi.
Il contributo da destinare alle forme pensionistiche complementari è stabilito in cifra fissa oppure:
- per i lavoratori dipendenti, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR o con riferimento ad elementi particolari della retribuzione stessa;
- per i lavoratori autonomi e i liberi professionisti, in percentuale del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF, relativo al periodo d’imposta precedente;
- per i soci lavoratori di società cooperative, secondo la tipologia del rapporto di lavoro, in percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR ovvero degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori ovvero in percentuale del reddito di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF relativo al periodo d’imposta precedente.
Gli accordi possono anche stabilire la percentuale minima di TFR maturando da destinare a previdenza complementare. In assenza di tale indicazione il conferimento è totale.
In merito a tale fattispecie, l’Ispettorato, nel messaggio oggetto di analisi, ha evidenziato come l’ipotesi del mancato versamento di parte dei contributi previsti dalle fonti istitutive del fondo prescelto possa integrare, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale, un inadempimento
contrattuale del datore di lavoro che
“dopo aver sottoscritto la domanda del lavoratore di adesione ad un Fondo di previdenza complementare ed aver effettuato le relative trattenute sulla retribuzione dovuta al lavoratore stesso, ometta di versare dette somme in favore del fondo”.
Ne consegue, pertanto, che il lavoratore possa agire innanzi al giudice civile per la tutela della propria posizione contrattuale.
Natura del contributo integrativo a carico del datore di lavoro
All’interno della citata nota n. 1436/2020, l’Ispettorato richiama la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 9 marzo 2015 n. 4684 che ha definitivamente escluso la natura retributiva del contributo integrativo posto a carico del datore di lavoro dai contratti e accordi collettivi riconoscendone, invece, la natura esclusivamente previdenziale.
In particolare, le Sezioni Unite hanno precisato che
“l’obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, […] che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore; esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporti di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire. […] la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo.
Se è vero che il rapporto di previdenza integrativa ha come necessario presupposto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, è anche vero che l’obbligo del versamento del contributo a carico del datore di lavoro non si pone nei confronti del lavoratore bensì nei confronti del fondo che è poi onerato della erogazione della relativa prestazione”.
Conseguenze sulla regolarità contributiva
Pertanto, secondo la nota dell’INL, laddove il datore di lavoro non abbia effettuato il versamento dei contributi al fondo di previdenza complementare e abbia comunque ridotto il proprio onere contributivo omettendo i versamenti dovuti al Fondo di garanzia, si configura una violazione di legge che legittima il recupero degli sgravi contributivi eventualmente fruiti in applicazione del suddetto art. 1, comma 1175, della L. n. 296/2006.
Ciò perché, come evidenziato ancora dalla nota n. 1436/2020 dell’INL, il D.Lgs. n. 252/2005, che detta la disciplina delle forme pensionistiche complementari, come modificato dalla legge n. 296/2006, prevede, in favore delle aziende che dal 1° gennaio 2007 devono trasferire il TFR nelle forme pensionistiche complementari, misure compensative per contenere gli effetti finanziari derivanti dallo smobilizzo del TFR. L’art. 10, comma 2, del suddetto D.Lgs. n. 252/2005, così come sostituito dall’art. 1, comma 764, della L. n. 296/2006, consente infatti una riduzione degli oneri contributivi a carico dell’azienda laddove dispone che
“il datore di lavoro è esonerato dal versamento del contributo al Fondo di garanzia previsto dall’articolo 2, della legge 29 maggio 1982, n. 297, e successive modificazioni, nella stessa percentuale di TFR maturando conferito alle forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rapporto di cui all’articolo 2120 del codice civile”.
Tale conclusione, condivisibile, non pare tuttavia potersi ascrivere, come evidenziato dalla nota, soltanto alla circostanza che l’omissione descritta rappresenti una generica violazione “degli altri obblighi di legge” quanto, piuttosto, proprio in virtù delle premesse introdotte dalla nota in esame, che l’omissione evidenziata costituisca una irregolarità contributiva tout court, perché implica una riduzione della quota versata al Fondo di garanzia, in virtù di un requisito (l’adempimento nei confronti del fondo complementare per via dell’obbligo contrattuale), in realtà insussistente.
Da ciò l’insorgenza della necessità di recuperare tale mancato versamento, anche se non attraverso la diffida accertativa di cui all’art.12 del D.Lgs. n. 124/2004, per l’insuscettibilità dell’adozione di questo strumento, per via della natura del credito.
Questo articolo è stato modificato per l'ultima volta il 4 Marzo 2020 14:57