Con l’Approfondimento dell’11 Maggio 2020 la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro avanza indispensabili riflessioni sul Protocollo di contrasto al contagio negli ambienti di lavoro nella Fase 2 dell’emergenza COVID-19 mostrando anche i rischi di uno strumento che potrebbe configurarsi come un passe-partout per i sindacati in azienda.
Il Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro, condiviso fra il Governo e le parti sociali, la cui obbligatorietà è definitivamente pacifica per via del suo richiamo da parte dell’articolo 2, comma 6 del DPCM del 26 Aprile 2020, che ne fa un suo allegato tecnico e come tale cogente, prevede al punto 13, rubricato “aggiornamento del protocollo di regolazione”, la costituzione in azienda di
“un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del Protocollo di regolamentazione con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e del responsabile dei lavoratori per la sicurezza”.
Si tratta senz’altro di una previsione destinata a promuovere forme di collaborazione virtuosa in un ambito fondamentale, come quello della tutela della salute sui luoghi di lavoro, rappresentando una ulteriore occasione di condivisione di esperienze e contemperamento di interessi. Una prova di maturità aggiuntiva per le parti delle relazioni industriali che, in occasione di una emergenza straordinaria come quella in corso ed occorrendo il ricorso a misure straordinarie anche in materia di sicurezza del lavoro, testano i reciproci ruoli.
Bisogna però assegnare alla previsione, pur importante per quanto premesso, la corretta portata e i doverosi confini della propria estensione. Dai presupposti citati, infatti, non deriva alcuna introduzione di nuovi obblighi di costituzione di organismi sindacali, né requisiti diversi da quelli già previsti dallo Statuto dei lavoratori.
Il Protocollo, infatti, non muta l’assetto tradizionale in tema di individuazione delle responsabilità datoriali in materia di sicurezza e, dunque, neppure la titolarità nella determinazione delle misure da adottare. Non discende alcuna gestione condivisa delle misure di sicurezza, le cui decisioni rimangono saldamente in capo al datore di lavoro e, soprattutto, dalla circostanza della previsione di questi strumenti di ampliamento delle misure di consultazione e condivisione con i lavoratori non discende alcuna automaticità riferibile ad un coinvolgimento necessario, immediato e diretto in azienda delle organizzazioni sindacali, laddove di fatto non presenti perché non ne sussistono i requisiti di legge.
Non a caso infatti proprio il Protocollo, nei capoversi successivi del medesimo punto 13, prevede la possibilità, “laddove, per la particolare tipologia di impresa e per il sistema delle relazioni sindacali, non si desse luogo alla costituzione di comitati aziendali”, di istituire
“un Comitato Territoriale composto dagli Organismi Paritetici per la salute e la sicurezza, laddove costituiti, con il coinvolgimento degli RLST e dei rappresentanti delle parti sociali”.
E, sempre al punto 13, è altresì prevista la possibilità ulteriore di costituire
“a livello territoriale o settoriale, ad iniziativa dei soggetti firmatari del presente Protocollo, comitati per le finalità del Protocollo, anche con il coinvolgimento delle autorità sanitarie locali e degli altri soggetti istituzionali coinvolti nelle iniziative per il contrasto della diffusione del COVID-19”.
Pertanto, e definitivamente, ben si può assegnare al punto 13 del Protocollo il riconoscimento dell’importante effetto derivante dalla introduzione, con la sua previsione, di un momento di condivisione e promozione del dialogo costruttivo in azienda, foriero di best practice relativamente ad aspetti fondamentali come quello della tutela della salute.
Appare, però, altrettanto indiscutibile che tale circostanza non muta gli equilibri rispetto alla ripartizione di diritti e oneri delle scelte aziendali, che rimangono in capo al datore di lavoro, così come non introducono nuove fattispecie di obbligatorietà della costituzione di rappresentanze sindacali aziendali. Risulta indiscutibile, infatti, che tale partecipazione dovrà essere garantita solo alle rappresentanze sindacali esistenti o, comunque, spontaneamente costituite secondo i canoni pre-esistenti al Protocollo e da questo non mutati. Escludendo, perciò, che dal Protocollo medesimo, e dalla obbligatorietà dei suoi precetti – laddove sussistenti -, derivante dal riconoscimento ad opera del DPCM del 26 aprile, possa intendersi conseguita una malintesa obbligatorietà di coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, tale da obbligare la costituzione di loro rappresentanze o riconoscere non meglio specificati ruoli rappresentativi endo-aziendali ad esponenti delle loro segreterie territoriali.
Questo articolo è stato modificato per l'ultima volta il 12 Maggio 2020 11:15