Approfondimento 7/5/2020 Fondazione Studi: effetti penali per la sicurezza sul lavoro
Con l’Approfondimento del 7 Maggio 2020 la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro analizza gli effetti penali per l’inosservanza, da parte dell’imprenditore, delle normative di contrasto alla diffusione del Covid-19 nei luoghi di lavoro.
Per quanto riguarda la normativa di riferimento “speciale” contempla numerosi provvedimenti varati negli ultimi due mesi.
L’articolo 1, comma 1, n. 7) del DPCM adottato il giorno 11 marzo 2020 prevede (rectius, raccomanda):
- alla lettera d) che le imprese “in ordine alle attività produttive e alle attività professionali (…) assumano protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la
distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale”; - alla lettera e) che “siano incentivate le operazioni di sanificazione dei luoghi di lavoro”.
Peraltro, “in relazione a quanto disposto nell’ambito dei numeri 7 e 8”, con la norma contenuta nel successivo numero 9) dell’articolo 1 di tale provvedimento si è voluto favorire, “limitatamente alle attività produttive, intese tra organizzazioni datoriali e sindacali”. Tali disposizioni solo in apparenza sono state adottate nella forma della “raccomandazione” – come se, cioè, non si volesse attribuire alle attività da compiere carattere di cogenza – mentre, in realtà – come vedremo – costituiscono veri e propri obblighi che i datori di lavoro sono tenuti ad adempiere per avviare la
“ripresa” dell’attività produttiva.
Inoltre, in attuazione della norma contenuta nell’articolo 1, comma 1, n. 9) del DPCM de quo, il giorno 14 marzo 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell’economia, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dello sviluppo economico e il Ministro della salute hanno sottoscritto con le parti sociali il “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”. Tale documento
“contiene linee guida condivise tra le Parti per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio negli ambienti di lavoro”, dal momento che – secondo i contraenti – “la prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione”. È, infatti, “obiettivo prioritario” del Governo e delle organizzazioni datoriali e sindacali “coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”.
Si richiama l’attenzione sul primo periodo della parte dispositiva (“si stabilisce che”) di questo Protocollo, che ha, senza dubbio, carattere ben più marcato di una semplice “raccomandazione” e recita: “le imprese adottano il presente protocollo di regolamentazione all’interno dei propri luoghi di lavoro, oltre a quanto previsto dal suddetto decreto, applicano le ulteriori misure di precauzione di seguito elencate – da integrare con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali – per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”. Il tenore di tale disposizione non lascia spazio a dubbi: alle imprese che esercitano attività consentite e che intendano continuare a compierle è, in buona sostanza, fatto obbligo di adottare le misure indicate nel Protocollo.
Orbene, da un esame del testo del Protocollo si evince che le misure più rilevanti ai fini della nostra analisi, sono:
- l’adozione di “protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale”;
- la “incentivazione di operazioni di sanificazione nei luoghi di lavoro”.
In sintesi, le “misure di precauzione” che le “imprese devono adottare all’interno dei propri luoghi di lavoro (…) per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro” consistono nel dovere di:
- “informare tutti i lavoratori e chiunque entri in azienda circa le disposizioni delle Autorità”;
- regolamentare le “modalità di ingresso in azienda” dei lavoratori, dei “fornitori esterni”, dei “trasportatori” e dei “visitatori” (ad esempio, imprese di pulizie e di manutenzione);
- effettuare “pulizia giornaliera e sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle postazioni di lavoro e delle aree comuni e di svago”;
- imporre che “le persone presenti in azienda adottino tutte le precauzioni igieniche, in particolare per le mani” e usino “dispositivi di protezione individuale”;
- disciplinare l’accesso “agli spazi comuni” dell’azienda e la permanenza in essi; “gli spostamenti interni, le riunioni e gli eventi interni”, così come “l’entrata e l’uscita dei dipendenti”;
- far proseguire “la sorveglianza sanitaria (…) perché rappresenta una ulteriore misura di prevenzione di carattere generale: sia perché può intercettare possibili casi e sintomi sospetti del contagio, sia per l’informazione e la formazione che il medico competente può fornire ai lavoratori per evitare la diffusione del contagio”.
Successivamente, nel DPCM emanato il giorno 22 marzo 2020, con la norma di cui all’articolo 1, comma 3, è stato stabilito che “le imprese le cui attività non sono sospese rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure (…) sottoscritto il 14 marzo 2020 fra il Governo e le parti sociali”. Come sopra anticipato, è facile rilevare che le misure – all’inizio “raccomandate” nel DPCM del giorno 11 marzo 2020 e demandate, quanto alla loro individuazione, a un Protocollo attuativo – sono ora “da rispettare”, poste cioè come condizione essenziale affinché “le imprese le cui attività non sono sospese” possano proseguire. È di tutta evidenza, pertanto, che l’adozione di tali misure ha assunto carattere “obbligatorio”, con ciò potendosi delineare, in ipotesi di inosservanza o non idoneità di queste, profili di responsabilità anche di natura penale a carico del datore di lavoro.
Dopo l’adozione dei provvedimenti fin qui esaminati, è stato emanato il Decreto Legge numero 19/2020, il quale interessa il presente studio in relazione ad alcuni precetti contenuti nel comma 2 dell’articolo 1 e, in particolare, quelli di cui:
- alla lettera z), secondo la quale possono essere esclusi dal provvedimento di “limitazione o sospensione” dell’attività i “servizi di pubblica necessità previa assunzione di protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non sia possibile rispettare la distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio come principale misura di contenimento, con adozione di adeguati strumenti di protezione individuale”;
- alla lettera gg), che prevede lo svolgimento delle “attività consentite” “previa assunzione da parte del titolare o del gestore di misure idonee a evitare assembramenti di persone, con obbligo di predisporre le condizioni per garantire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio”.
A tali precetti è data attuazione attraverso il “Protocollo condiviso” di cui sopra, sottoscritto in data 14 marzo 2020, che rimane in vigore e spiega i propri effetti, poiché, ai sensi del comma 3 dell’articolo 2 del D.L. n. 19/2020, “continuano ad applicarsi nei termini originariamente previsti le
misure già adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati in data (…) 11 marzo 2020”. Ora, poiché il Protocollo in questione è stato adottato in attuazione del citato DPCM, non vi è dubbio che le prescrizioni in esso contenute conservano efficacia anche in seguito alla emanazione del D.L. n. 19/2020.
La successiva norma ex articolo 4 del D.L. n. 19/2020 stabilisce le sanzioni (penali e amministrative) da applicarsi per le violazioni, in particolare, delle regole sopra enunciate.
Orbene, ai sensi del comma 1 dell’articolo 4 in commento, “salvo che il fatto costituisca reato”, il “mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’articolo 1, comma 2” – e cioè quelle indicate nelle sopra richiamate lettere z) e gg) – “è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità”.
Alla violazione della condotta imposta dalla norma di cui alla sopra richiamata lettera z) del comma 2 dell’articolo 1 è stato riservato un trattamento punitivo improntato ad estrema severità, perché oltre alla sanzione penale o amministrativa (a seconda della gravità e delle conseguenze della condotta) è prevista quella “amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni”.
Dell’articolato quadro normativo sin qui delineato fa parte anche la Circolare n. 13 emanata dall’Inail il 3 aprile 2020, la quale, nel definire l’ambito applicativo della tutela assicurativa – stabilita dall’articolo 42, comma 2, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 – nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus, avvenuti in occasione di lavoro, ha precisato che “secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie, l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta. In tale ambito delle affezioni morbose, inquadrate come infortuni sul lavoro, sono ricondotti anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto”.
L’Istituto ha, inoltre, spiegato che la disposizione ex articolo 42 del D.L. n. 18/2020 “chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavoro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo coronavirus contratta in occasione di lavoro per tutti i lavoratori assicurati all’Inail”, riconoscendo, pertanto, che “i casi di infezione da nuovo coronavirus” sono da inquadrare nell’ambito delle “malattie infettive e parassitarie” e, come tali, riconducibili alla categoria degli “infortuni sul lavoro”.
In data 24 aprile 2020, Governo e Parti Sociali hanno “integrato” il Protocollo sottoscritto il 14 marzo 2020. La principale novità che si riscontra in tale documento, rispetto al precedente, è contenuta nella premessa e consiste in una vera e propria disposizione precettivo-sanzionatoria, in base alla quale “la mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.
Tale precetto riveste carattere di notevole importanza, perché la mancata attuazione delle misure di protezione previste nel Protocollo potrebbe avere riflessi di natura penale sia ai sensi del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (adottato con il decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successivi aggiornamenti) sia nell’ipotesi in cui da tale inosservanza derivassero conseguenze dannose ai lavoratori.
Infine, in data 26 aprile 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri ha adottato un nuovo decreto con il quale è stata inaugurata la cosiddetta Fase 2” relativa alle misure in materia di contenimento e alla gestione dell’emergenza epidemiologica. A prescindere da ogni considerazione in ordine all’effettivo avvio con tale provvedimento di un tangibile allentamento della “morsa” restrittiva della liberà personale e di una “ripresa” dell’esercizio delle attività commerciali, è da osservare che in tale decreto è stata definitivamente “consacrata” la cogenza delle misure di protezione che “le imprese, le cui attività non sono sospese” sono tenute ad adottare. Infatti, al comma 6 dell’articolo 2 di questo DPCM, sono richiamati i Protocolli condivisi del 20 marzo 2020 e del 24 aprile 2020, al cui rispetto le imprese sono espressamente obbligate ed è previsto che “la mancata attuazione dei protocolli che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”.
Dunque, in forza di tale norma, l’obbligo per le imprese di adottare le misure scaturisce sia dal termine “rispettano” – tempo verbale che esclude qualsivoglia discrezionalità – sia dal fatto che la “mancata attuazione dei protocolli” è sanzionata con la misura delle “sospensione dell’attività”.
Altri contenuti dell’Approfondimento del 7 Maggio 2020 della Fondazione Studi
L’Approfondimento del 7 Maggio 2020 della Fondazione da conto anche di:
- La normativa di riferimento “generale”;
- I riflessi di natura penale della inosservanza delle disposizioni dettate per contrastare e contenere la diffusione del virus.